Giovanni Testori ha letto in chiave di scontro-incontro anche caratteriale il lavoro dei due artisti, fin nella luce: la penombra a Romanino (con la luce blanda che cresce di scena in scena, fino al S. Giovanni), il meriggio a Moretto; dalla parte del Moretto "splendore, forbitezza, certitudine, acuità e pressione del reale accettato"; dalla parte del Romanino "tristezza, sgrammaticatura, violenza, espressione e persino espulsione del reale rifiutato". Romanino come uno dei caravaggeschi derelitti di un secolo dopo, il primo qui a dare "una gran botta precaravaggesca" col luminismo del S. Matteo. Anche i damaschi più pregiati diventano tabarri e coperte da giaciglio di contadine, preziose custodie d'umanità semplice.
Ora studi recenti di storici quali Ballarin e Nova, per lettura stilistica e nessi di aggregazione culturale, tendono a spostare la datazione di tutte le tele del registro inferiore della Cappella, sia del Moretto che del Romanino, agli anni Quaranta.
A quest' epoca, generalmente considerata di crisi e ripiegamento dalla tradizione critica, vengono riportate molte altre opere.
Qui conta la volontà di far breccia sullo spettatore, la libertà sempre più affermata di parlare col colore. La strenua ricerca del monumentale, i drammatici effetti spaziali esibiti dal Pordenone che l'ha scacciato da Cremona, qui sono applicati, con senso di sfida, anche a un mondo umile e basso, plebeo, e a più esigenti e meditativi sperimentalismi del naturale e della luce.
Nel 1522 a Brescia era arrivato Tiziano col Polittico Averoldi per l'altar maggiore di San Nazaro: la Resurrezione come un trionfo del Cristo col senso grandioso delle cose umane, la ginnastica scultorea dei santi, il dramma della luce trasfigurante che frantuma la notte. Un'opera dirompente, di formidabile propaganda cattolica, nella spettacolare fusione tra terra e cielo, tra sacro e feriale, che i migliori pittori bresciani sapranno immediatamente cogliere.
Romanino non può essere così radioso, sensualmente ebbro di classicità e fede come Tiziano: ne coglie l'energia di persuasione tangibile, concreta, con un senso tutto suo della pazienza di vivere, dolente e ribelle. Gli affreschi nell'abside di S. Francesco, il Polittico di Sant'Alessandro (ora a Londra), la Resurrezione di Cristo per la parrocchiale di Capriolo, gli affreschi delle Storie di Sant' Obizio (fatto intercessore concreto, prossimo allo spettatore) nella chiesa di San Salvatore delle monache benedettine di S. Giulia, tutte opere tra 1524-27, sono grandi omaggi alla grandiosità tizianesca, ma in una pacatezza struggente, in una febbre inquieta d'ombre e luci, che talora pare recuperare impaginazioni arcaiche e la spiritualità della carne grama e silente dell'ultimo Foppa dello Stendardo di Orzinuovi (oggi alla Pinacoteca Tosio Martinengo).
Quest' inquietudine erompe nel crepitio delle ante dell'organo e delle tavolette della cantoria del Duomo di Asola, 1525-26, in un fare veloce e saettante, ricco di scorci e torsioni audaci, nell'esasperato espressionismo popolaresco delle sibille stregonesche e dei profeti bisbetici. Si pensa subito ai processi e ai roghi per stregoneria che avvennero in Valcamonica nel 1518, e a quel che scrisse invece il vescovo il legato pontificio di Venezia, Altobello Averoldi, colui che commissionò il polittico a Tiziano: "Son gente semplice... che avrebbero più bisogno di predicatori e d'istruction nella fede cattolica che di
persecutori". Beffardo, polemico, memore delle incisioni tedesche, è come se Romanino trascinasse questa folla plebea e stregonesca in chiesa.
Così come, col suo solito gusto della rottura anticlassica mista alle più raffinate applicazioni delle norme codificate, dopo opere come le Cene affrescate per l'Abbazia olivetana di Rodengo con piglio largo, affabile e rusticano, andrà nel 1531-32 a decorare il Magno Palazzo del principe-vescovo Bernardo Cles a Trento, nel Castello del Buonconsiglio.
È Romanino stesso che si offre di partecipare alla decorazione del cosiddetto Magno Palazzo, in concorrenza con il pittore di casa Marcello Fogolino, eccentrico e focoso, e soprattutto con i pittori Dosso e Battista Dossi che in quegli anni dettavano il gusto largo e fantasticamente lirico delle delizie estensi alla Corte di Ferrara, dove l'Ariosto andava recitando le ottave del suo Orlando Furioso. In quegli stessi giorni a Mantova stava nascendo, sotto l'impulso di un grande allievo e collaboratore di Raffaello nelle imprese romane, Giulio Romano architetto e decoratore, un altro straordinario palazzo di lucidi inganni: palazzo Te. Si direbbe che Romanino a Trento cerchi l'occasione polemica, l'opportunità di mostrare il suo diverso illusionismo.
Trento - era col principe-vescovo Bernardo Cles che sarà tra i più attivi preparatori del Concilio tridentino - luogo di confine e di scambio tra i due mondi culturali che attiravano Romanino: punta estrema del gusto rinascimentale verso il Nord, ma anche del gusto oltremontano verso il Sud. Non è certo un caso, ma un ben preciso segnale di scambio culturale, se uno dei grandi pittori del primo Cinquecento tedesco, Albrecht Altdorfer, venne apposta a Trento per ispirarsi
all'espressività ed al cromatismo brillante delle immagini del Romanino, che forse incontrò direttamente, per la decorazione del bagno del vescovo di Ratisbona. Qui Romanino maturò definitivamente il suo plurilinguismo: la capacità di misurarsi sui grandi temi della composizione architettonica e sul linguaggio solenne della mitologia e del travestimento allegorico in voga nelle Corti, con uno spiccato gusto dell'apparizione, ma in un costante controcanto di realismo grottesco, quel che nel teatro dell' epoca si chiamava stile comico. Sulle pareti del Magno Palazzo Romanino dà spettacolo della sua straordinaria corsività esecutiva, spesso abbozzando direttamente sulle pareti, sciorinando tutta la sua complessa gamma stilistica, dal classicismo all'anticlassicismo.
Qui, alla Corte d'un vescovo che vuol conciliare magnanimità e carità, Romanino ha ben presente il Libro del Cortegiano del conte Baldessar Castiglione, che a Mantova aveva impostato la questione della lingua e dell'arte nella cornice della corte come scena, come ribalta esemplare. Il pittore bresciano offre una partitura su più livelli stilistici come interpretazione del percorso architettonico e delle destinazioni dei vari ambienti. È come se mostrasse di manipolare un processo alchemico, di trasmutazione della materia, dalla grande mitologia della Loggia, con la celebrazione della dignità del committente, alla mondanità della scala che porta al giardino sottostante, fino alla gioiosa sensualità dei nudi del bagno.Per la vitalità sanguigna e spregiudicata di alcune scene giova anche far riferimento ai temi della tradizione contemporanea del mimo conviviale e della giullarìa, che insiste vano sull'imitazione esatta -
e parodistica - di tipi e personaggi reali.
Passa dall'illusionismo perfetto, dal gran teatro degli schemi magniloquenti (il
Carro di Fetonte, le Stagioni, le Storie bibliche e le Storie romane) al disvelamento della trama pittorica, man mano che si avvicina all'occhio dello spettatore. Un procedimento che adotterà poi esplicitamente nelle pievi camune negli anni immeditamente successivi.
Ci si appiglia ad una lettera del 1532 di Bernardo Cles al pittore, ripreso per la sconvenienza di alcune figure discinte ("non hanno quella venustate et proportione che doveriano"), per intendere il Romanino dei successivi anni Trenta come un reietto ricacciato nel contado per quel suo stile violentemente espressionistico. In realtà in quel decennio Romanino non si ritrovò solo a risalir la Valcamonica, ma fu attivissimo anche a Brescia (ad esempio con i perduti affreschi delle Storie di S. Domenico nel chiostro dei morti del convento omonimo) e nel Duomo di Asola. E a Trento fu ancora chiamato a lavorare (per le ante d'organo di S. Maria Maggiore, intorno al 1535) perchè il rimprovero del principe-vescovo era per così dire d' etichetta e buonacreanza, moralistico, non certo stilistico. Ed è ormai stato dimostrato come i grandi affreschi in Valcamonica (Pisogne, Breno, Bienno) siano nati da rapporti stretti e costanti, di piena fiducia fra il pittore e le comunità religiose e monastiche o le confraternite, come i Disciplini di Pisogne.
Fausto Lorenzi
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