Nel 1516 Brescia è riconquistata definitivamente dai veneziani
ed è subito fervida di cantieri di ricostruzione.
La Serenissima decide di urbanizzare la Cittadella Nuova realizzata
dai Visconti nel Trecento,ormai inutile fortilizio del potere, e per tutto il secolo ristrutturerà Brescia come una città da guerra, cingendo il Castello di muraglioni stellati e bloccando tutto l'abitato in una possente cerchia fortificata, con intorno una desolata terra di nessuno.
Anche i conventi fuori le mura sono rasi al suolo e devono essere ricostruiti all'interno. È il momento in cui si mobilitano anche gli artisti veneti per la Loggia e per la città tutta: la Repubblica vuol imprimere l' impronta della sua cultura su Brescia.
Romanino torna subito nella sua città, nell 1516-17, a issare
un grande stendardo che pare un omaggio alla forza persuasiva di Tiziano: la Pala per l'altar maggiore della chiesa di S.Francesco con la Madonna in trono con santi e monaci. Romanino ci mette anche preziosità fiamminghe nel gusto per le
stoffe fulgide e insieme sembra introdurre un controcanto meditativo ed una luce argentea che fanno pensare al più irriducibile oppositore di Tiziano, quel Lorenzo Lotto che con melanconica vena introspettiva e luci gelidamente affilate fu transfuga da Venezia nel contado (già negli anni 1511-12 si aggirava nella Bergamasca), ansioso di interrogare spessori e volti del quotidiano.
Si potrebbe dire che Romanino rientri nella sua città ferita a
intonar l'elegia dell'umanesimo e insegua uno stile di rapporto più diretto e circostanziato con la realtà, anche come abito di religiosità. Di questo periodo è anche la bellissima Salomè di Berlino, immersa in una torpida, dolente malinconia: fa da modella una cortigiana, come presa nel filtro
ineludibile del destino.
In questo decennio non dovettero essere sporadici i rapporti con la Corte dei Gonzaga, dove attorno a Isabella d'Este ed a Federico II ferveva il dibattito sulla lingua e
sulle arti. Risulta da una lettera di Federico II il rammarico che il nostro pittore abbia lasciato cadere l'invito ad affrescare a Mantova la facciata esterna del palazzo di Paris Ceresara, un celebre astrologo dignitario di Corte. Ma Romanino preferisce, dopo essere stato chiamato a collaudare gli affreschi di Altobello Melone nella navata centrale del Duomo di Cremona, accettare nel 1519 l'incarico di succedergli. Nelle grandi scene della Passione di Cristo che dipinge tra l' estate e
l' autunno del 1519 (Davanti a Caifa, Flagellazione, Incoronazione di spine, Ecce Homo) fa esplodere in grande tutto il suo sperimentalismo che nell'accogliere la visione eroica dell' antico e della storia sacra, secondo il grande stile toscoromano
del primo Cinquecento, subito intacca il vigore plastico di quelle anatomie in un realismo creaturale dove agiscono la deformazione e l'iperbole.
La scelta di andare a Cremona, città fulcro dello sperimentalismo anticlassico padano, nei primi decenni del Cinquecento, appare una sfida quanto mai consapevole: è la prima occasione offerta al Romanino di interpretare un modello di pedagogia cristiano-umanistica che utilizzi il classicismo assieme alle rotture realistiche a supporto di un rinnovato evangelismo.
È il tema del Volto di Cristo ritrovato nel volto degli uomini, spesso in una smorfia dolente, anzichè nel modello eroico dell'antichità greco-romana.
Il realismo creaturale era già del medioevo gotico, col lamento della Vanitas, cioè della fragile vanità o corruzione delle ambizioni mondane: l'impronta energica e marcata delle scene del Romanino ha però una carica vitalistica e dinamica, anche sotto il peso del dolore della Passione di Cristo, e una radice psicologica assolutamente moderne. La fisicità dei corpi
diventa un ingombro di attori quasi forzati su uno sfondo prospettico di quinta teatrale, di vera e propria sacra rappresentazione, ma memori di angherie vere.
E i temi dettati dai massari del Duomo di Cremona erano tipici della meditazione oltremontana. Sono gli anni che preparano lo scisma protestante:
nel 1517 Lutero ha appeso le 95 tesi sulla libera interpretazione della scrittura e il sacerdozio universale dei credenti alla porta della Cattadrale di Wittenberg, minando il principio d'autorità della Chiesa di Roma.
Il nostro pittore sente l'esigenza d'uno stile che trasgredisca le convenzioni che vogliono la separazione dei generi e attinge al lessico di Dürer per governare i potenti succhi che ha saputo estrarre da Tiziano. Del resto nel Duomo l'hanno appena preceduto con i loro umori anticlassici e le loro bizzarrie anche l' amico Altobello e Gianfranco Bembo, che pure hanno piegato in chiave nordica la classicità ritrovata della Nuova Roma. Il pittore bresciano, oltre che in quest' ambito che fa della navata del Duomo di Cremona il punto più consapevole della presenza dell'espressionismo nordico in Italia, si muove su una linea di collocazione spaziale che traccia un' esperienza che dai compianti in terracotta, diffusissimi allora in area padana, con le figure libere nello spazio ma vincolate al teatro religioso,
sboccherà nelle processioni sceniche dei Sacri Monti. Azioni teatrali, dunque, quelle inscenate da Romanino a Cremona, anche con fare largo alla maniera di Michelangelo. Eppure Romanino sarebbe stato sollevato dall'incarico, nel 1520, per far posto alla terribilità michelangiolesca divulgata quasi in presa diretta da un altro grande irregolare della terraferma veneta, il Pordenone, che già era stato chiamato a sostituirlo a Mantova, per quella decorazione che Romanino aveva snobbato.
In area bresciana e bergamasca, intanto, si diffondono precocemente pale d'altare e affreschi con chiari intenti dottrinali e contemplativi, specie per affermare la presenza reale del Cristo nell' Eucarestia, a fronte delle tesi luterane. È esemplare di questa temperie, in Romanino, la tavola della Messa di Sant'Apollonio per la chiesa di S. Maria in Calchera a Brescia. In Romanino ora risuona qualche consonanza con i travagli stilistici e dottrinali di Lotto (È nota la vicinanza di questi agli ambienti del cattolicesimo riformato, al limite del sospetto d'eresia), ma la sua fede non sarà introspettiva come quella del Lotto, ne mistica come quella del Moretto con cui è associato nel 1521-24 dai canonici lateranensi nell' impresa della Cappella del Santissimo Sacramento in S. Giovanni Evangelista a Brescia, ma certo non è untuosa e compunta; piuttosto attiva, affabulante, mimica, concitata, ricca del calore evangelico della predica, in un gusto di concreta esperienza, di psicologia pratica, rude e spregiudicata. È in questa fede attuale, alla portata di tutti, che il Romanino declina le grandi lezioni del Raffaello e del Michelangelo vaticani, la cultura antiquario-umanistica qui fortemente presente. Nel più grande monumento del Rinascimento bresciano, Romanino dipinge per la parete sinistra i profeti nel sottarco, la lunetta con la Messa di San Gregorio, le tele della Resurrezione di Lazzaro e della Cena in casa di Simon Fariseo, gli evangelisti Matteo e Giovanni. Al Moretto, sull' altro lato, toccano i temi biblici.Fausto Lorenzi
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