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"Il miracolo della fornace" particolare di "S.Antonio"
Sant' Antonio Breno (BS)
- "Il miracolo della fornace" particolare dell'affresco
- Particolare della parete sinistra: un personaggio seduto sul cornicione richiama l'attenzione degli spettatori sui fatti narrati.

Romanino nel travaglio della crisi umanistica
e religiosa

Dopo gli studi degli ultimi decenni si riesce a interpretare meglio Romanino come un pittore immerso nel travaglio della crisi umanistica e della crisi religiosa della prima metà del Cinquecento. È proprio la piena coscienza con cui usa registri stilistici colti e popolari che è rivelatrice di autentiche inquietudini religiose, sue e dei suoi committenti, che chiedevano con urgenza di calare i fatti della storia sacra nell'esperienza quotidiana del popolo.
Gli studiosi (Begni Redona, Guazzoni, Ballarin, Nova, Ferri Piccaluga) sono venuti precisando in questi ultimi decenni i rapporti di Romanino con la Congregazione dei benedettini, soprattutto, ma anche con i francescani e con le confraternite dei Disciplini. Ma non si devono nemmeno dimenticare gli impulsi che il richiamo all'autenticità della testimonianza religiosa, espresso nella devotio moderna, aveva dettato a certa misteriosa evocazione del vero (il divino nella natura) nella pittura fiamminga, molto ben documentata allora nel mondo padano.
La partecipazione che viene maturando in Romanino al segno fisico, al tragico e al creaturale avveniva quando ancora il mondo basso, cioè il mondo del popolo, era chiuso nel recinto dello stile comico. Era così che il vissuto in rapporto ad ambienti sostenitori di una fede di immediata aderenza al Vangelo, quindi al Cristo nel mondo, fra i plebei era fatto passare tra le maglie delle convenzioni d'ordine classico. C'era anche, in Romanino, il richiamo a quei contadini e montanari protagonisti della libellistica che al di là delle Alpi, nel mondo tedesco, ne accompagnò la rivolta. Ci fu una letteratura in vernacolo, straordinariamente favorevole ai contadini, che fiorì nella pianura padana sconvolta da guerre, pesti e carestie agli inizi del Cinquecento. Teofilo Folengo (Merlin Cocai) e Angelo Beolco (il Ruzante), dal canto loro, si rivolsero rispettivamente col poema maccaronico e col teatro a un pubblico cittadino, letterato, ma sotto il tono scanzonato portarono sulla scena una seria realtà contadina. Col suo splendido latino, anche Erasmo da Rotterdam richiamava allora ai potenti ed ai colti l'affermazione di S. Paolo che il vero tempio di Dio erano i poveri. S'imponeva la meditazione sull'Imitazione di Cristo.
In questo contesto si può capire anche il ruolo di Romanino, col suo specifico linguaggio religioso, in quella Brescia in cui la pittura del contemporaneo Moretto, devotamente compunto e contemplativo, nasceva dalla diretta adesione ad ambienti di carità e di autoriforma cattolica che avrebbero nutrito lo spirito conciliare tridentino. Romanino dal canto suo portava la frattura, il senso drammatico della realtà dentro lo stesso tessuto pittorico. Il pittore come nella letteratura di quel tempo Folengo, o Ruzante autore di commedie auliche in lingua rustica, o il bresciano Galeazzo dagli Orzi autore della Massera da bè nelle sue alchimie linguistiche e nella sua simpatia sociale, più che immedesimarsi incondizionatamente nell'anima del popolo, accettava fino in fondo un dialogo drammatico, aderente alla realtà storico-religiosa d'un'epoca tragica. Meno rabbioso e cagnaresco, come amava dire Giovanni Testori, di quanto talvolta è stato affermato, se è arrivato, come ad esempio in Santa Maria della Neve a Pisogne, a rivelare così apertamente agli spettatori la teatralità del suo lavoro, quasi a farsi vedere mentre si toglieva gli abiti della recita, scendendo a terra dalle impalcature. Ma autentico campione dell'antirinascimento, col suo uso espressivo del dialetto assieme alla lingua di corte, proprio in polemica con un' arte evasiva e cortigiana.
Senza arrivare agli estremi del neorealismo popolareggiante con cui lo lesse lo scrittore Pier Paolo Pasolini negli anni Sessanta, o del neorealismo fondamentalista del critico-scrittore Giovanni Testori al quale però si deve negli anni Settanta e Ottanta la definitiva rivendicazione della grandezza del Romanino affrescatore delle pievi della Valcamonica ("il solo vero grande sdegnoso e sdegnato barbaro" dell'intero Cinquecento italiano, fino a proclamarlo "il più grande, più torvo e triviale dei pittori in dialetto dell'arte d'ogni regione e d'ogni tempo"), possiamo provare a leggere Romanino come un pittore che, reagendo alla crisi di una cultura che si trincera nell'ambito delle Corti, si fa vagabondo, chiamato in causa dagli sconvolgimenti di quegli anni e soprattutto dalla grande controversia religiosa e si pone anche il problema di individuare un nuovo pubblico.
Il fatto è che noi siamo stati abituati a celebrare il rinascimento nei suoi aspetti di Corte, nell'unificazione della lingua (in arte come in letteratura), dimenticando una tradizione combinatoria di parlate internazionali e locali, di orchestrazione di registri illustri insieme ad altri mistici e folclorici. È solo dagli anni Quaranta del Cinquecento che il classicismo fatto maniera, cioè stile, irreggimenta ogni lievito nuovo, espunge il plurilinguismo. Proprio dal Veneto tra Quattro e Cinquecento venivano sia la raffinata distillazione di Giorgione (la fusione delle figure nel paesaggio come in una musicale armonia), sia il plurilinguismo che si esprimeva anche nella sinergia politica tra gli statuti della Serenissima e quelli delle città di terraferma. Il pubblico era abituato, insomma, a una sorta di babele.
Quella velocità di trapassi e di mutamenti di scene che Romanino volle visualizzare nelle sue macchine sceniche più complesse (e in particolare al Magno Palazzo di Trento, come hanno dimostrato anche i recentissimi studi di Bruno Passamani) la si può riscontrare ad esempio, in letteratura, nell'Orlando Furioso dell' Ariosto.
Romanino è dunque da inseguire su una linea di terraferma veneto-lombarda, la stessa lungo la quale si mosse Teofilo Folengo. Il curatore del più aggiornato catalogo delle opere del Romanino, Alessandro Nova, ha cercato di precisarne i rapporti con l'autore dell'Opus maccaronicum, già da molto tempo ipotizzati. A Santa Giustina di Padova, nel 1513-14, certamente Romanino incontrò Folengo, che per di più aveva iniziato il suo noviziato nel 1502 nel convento benedettino di S. Eufemia a Brescia. In quegli anni il monaco, che si muoveva tra Padova e Mantova e partecipava attivamente al dibattito sulla questione della lingua che si teneva alla Corte dei Gonzaga, si apprestava a pubblicare la prima edizione del Baldus in lingua maccaronica.
Oltre che di plurilinguismo, Romanino fa sfoggio della capacità di creare illusivamente le tre dimensioni, dimostrandosi consapevole della disputa dell'epoca tra pittura e scultura. E appartiene al periodo in cui gli studi sulla struttura fisica ed il carattere (la fisiognomica) sono rilanciati da Leonardo ed i leonardeschi (che inseguivano il riconoscimento della natura dilatando la gamma espressiva fino a includere il brutto, il deforme, il grottesco). In più, in un'età che cercava fondamenti nell'antichità classica, c'era l'autorità di Plinio (la sua Naturalis Historia era stata pubblicata tradotta in lingua fiorentina da Cristoforo Landino già nel 1476 a Venezia) a esaltare come eccellenti in pittura le opere che riuscivano maggiormente a illudere lo spettatore, ad apparirgli più vere e reali.
Romanino è un pittore che non può essere letto solo dall'alto, dalla lingua ufficiale, perche ha saputo, con la sua statura straripante e dissipatrice di sperimentatore, trovare anche nel suo espressionismo la parola di coloro che avevano solo il dialetto.

Fausto Lorenzi

  1. Girolamo Romanino e la cultura del suo tempo
  2. Il ritorno del patriarca Foppa
  3. A mezzo tra due mondi, aulico e popolaresco
  4. Tra Milano e Venezia, una temperie cremonese
  5. Dal tributo a Tiziano allo sperimentalismo anticlassico
  6. Il connubio tra monumentalità e mondo plebeo
  7. Le grandi decorazioni in Valle Camonica
  8. Romanino nel travaglio della crisi umanistica e religiosa
  9. Come dipingeva il Romanino
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