Sono gli stessi primi anni del Cinquecento in cui dalla Roma dei Medici il circuito delle immagini a stampa si fa velocissimo, tramite la calcografia, per divulgare il sentimento dell'antico e della classicità e le nuove maniere pittoriche che
interpretano lo slancio ideale della Renovatio Romae. In questa Roma si scontrano le due grandi anime del Rinascimento, tra l' ordine armonico universale (la luminosa serenità) vagheggiato da Raffaello e la spinta dinamica all' infinito contratto nell'umano (il tormento del destino dell'uomo) sofferta da Michelangelo.
Gli artisti da tutt' Italia moltiplicano i viaggi d'aggiornamento a Roma: tra il 1508 e il 1514 ci fu ad esempio una vera e propria calata dei lombardi, dei pittori del Nord, per vedere dal vivo il gran teatro del classicismo raffaellesco e i potenti, inediti scorci che si gettano già dalla volta michelangiolesca della Cappella Sistina. I frammenti che ci sono giunti degli affreschi del 1508-9 dipinti da Romanino per il palazzo di Nicolo' Orsini a Ghedi offrono quinte prospettiche di spazialita' ideale dove inquadrare i meriti del capitano generale della Serenissima, insignito di labari per quest' impresa Romanino sara' a implorare ancora decenni dopo di essere pagato, chiedendo agli eredi dell' Orsini di onorare i crediti, ma intanto le architetture ideali qui tracciate possono richiamare la cultura di eurittia classica che si andava affermando nella Loggia e nella sua piazza. Qui è evidente come Romanino guardasse ad apparati scenografico-prospettici di matrice lombarda: si possono richiamare ad esempio i celebri Arazzi Trivulzio dei 12 Mesi al Castello Sforzesco di Milano, realizzati su cartoni del Bramantino nei primissimi anni del Cinquecento. Ma quella cubatura spaziale milanese la si trovava ad esempio anche nella
Deposizione di un altro celebre pittore dell'epoca, Bernardino Zenale, arrivata entro il 1509 in S. Giovanni Evangelista a Brescia, a cui subito Romanino avrebbe risposto con la sua prima opera datata e firmata (ma in tutto,
così datate e firmate, del Romanino ce ne son giunte solo tre), come se si trattasse di una vernice ufficiale nella sua città, il Compianto del dicembre 1510 per San Lorenzo (ora all' Accademia di Venezia).
In quest'opera si rileva che la formazione romaniniana, al di la' dei viaggi a Venezia esplicitamente dichiarati nelle figure giorgionesche e tizianesche attorno al corpo di Cristo e alla Madonna, è avvenuta a stretto contatto col crogiuolo cremonese d'inizio secolo, dove appunto si ebbe il più eclatante incontro tra
la cultura milanese dei leonardeschi, di Bramante e Bramantino e il giorgionismo veneto, con artisti della Bassa lombarda quali Giovanni Agostino da Lodi e Boccaccio Boccaccino scesi precocemente ad aggiornarsi in laguna tra 1500 e 1505.
Brescia invece, in quel primo decennio del Cinquecento, era ancora, in ambito artistico, nell'indirizzo delle sue botteghe, eminentemente lombarda, dominata dalle imprese del Foppa e del cremasco Civerchio. Però sono ben documentati anche a Brescia proprio autori come Agostino da Lodi, Boccaccio Boccaccino, Bartolomeo Veneto: come dire che le mediazioni tra cultura veneta e milanese si andavano facendo anche qui immediatamente attive.
Le opere alle soglie degli anni Dieci del Cinquecento ci testimoniano un Romanino che ancora non aveva trovato un registro d'accordatura agli stimoli, spesso giustapposti, che gli venivano da Milano e Venezia, finchè il Compianto sembra dichiararsi per quest'ultima: pur nel telaio lineare che irrigidisce ancora la figura del Cristo,il coro pietoso è gia' tutto intriso nella trama tonale.
Il nodo dell' intreccio tra il cremonese Altobello Melone e Romanino, tanto stretto da rendere spesso difficile l'attribuzione, al volgere del secondo decennio del secolo, conferma il ruolo della straordinaria temperie cremonese, via di precoce aggiornamento culturale verso Venezia.
Brescia a quell' epoca precipita negli eventi tragici cui s'è fatto cenno. Si vuole che siano del 1512 (sono proposte però anche datazioni verso il 1515), opera d'un Romanino che in fuga dalla città saccheggiata s'inerpica sul crinale
sopra Bovezzo, gli affreschi per il santuario rustico di Sant'Onofrio al Monte Palosso, con le Storie del sant'Onofrio e Pafnuzio.
Qui, tra fissità tipologica e vivacità patetica non priva di teatralità popolaresca nella gestualità di una sacra rappresentazione, interpreta in simbiosi con Altobello Melone l'eremitaggio del frate nel deserto della Tebaide. Con l'amico cremonese s'avventura poi nel circondario del lago d'Iseo, dove s'era rifugiato anche il governo filoveneto dei fuorusciti bresciani. A Tavernola Bergamasca, nella Pieve di S. Pietro, Romanino traccia il più alto manifesto della sua dedizione al senso spaziale e prospettico bramantinesco, cioè milanese, nell' affresco votivo della Madonna in trono che presenta il Bambino e il libro tra santi e donatori, ma già applicando un linguaggio fondamentalmente cromatico che presuppone la conoscenza del Tiziano tra la Pala di San Marco e gli affreschi dei Miracoli di Sant'Antonio alla Scuola del Santo a Padova.
E a Padova, Romanino arriva nel 1513 come pittore che porta una gran ventata di espressività con l' Ultima Cena per il refettorio benedettino di Santa Giustina e, folgorato sulla via di Tiziano, con la Pala di Santa Giustina (entrambe le opere sono ora al Museo Civico di quella città).
La Cena è preparata anche dalle Tre teste lasciate come una specie di saggio di fisiognomica sulla controfacciata della Pieve di Tavernola e c'è chi tra gli studiosi, come Alessandro Nova, ha individuato in quegli apostoli quasi in combutta un'evidente parodia della Cena di Leonardo, anche se vi si insegue l' unificazione dello spazio attraverso la luce (veneta), e chi invece, come Giovanni Testori, ha sentito una mutriosa negritudine che anticipa d'un secolo i cosiddetti pittori pestanti milanesi (cioè dell'età della peste e del conseguente sconvolgimento spirituale di manzoniana memoria) attorno al cardinal Borromeo. Ancora una volta traspare la vena del grottesco, condivisa con Altobello, ispirata dalla pittura del Nord Europa. Ma, accanto a questa, va colta un' altra suggestione: quella che ispira il sermo humilis (cioè il linguaggio accessibile al popolo, l' argomentazione calata anche nell' esperienza quotidiana della gente più umile) della congregazione benedettina, attraverso il riferimento immediato alla cronaca e al costume.
La tavola apparecchiata della Cena è già un gran brano di natura morta di impronta feriale, di affettuosa - questa sì tutta lombarda - osservazione delle cose.
Persino certo realismo grosso di Romanino può allora essere spiegato con l' esigenza dei monaci committenti dell' opera, che ben si uniformavano ai precetti eticostilistici che erano andati appunto emergendo con l'unificazione dei modelli di retorica sacra e profana nella predicazione tra Quattro e Cinquecento. In certi predicatori si trova la stessa miscela che ci dà in pittura Romanino, tra severe lezioni umanistiche e realismo acceso da una pietà insolente, tesa a scuotere le coscienze.
Al confronto, l'immediatamente successiva Pala di Santa Giustina con la Vergine incoronata dagli angeli, una delle opere più celebrate del Romanino, appare collegata con evidente sicurezza ad una tradizione grandiosamente, eminentemente formalistica.
Tiziano certo, con l' esempio degli Affreschi del Santo, pungola Romanino alla sontuosa fusione cromatica ed alla grandiosa plasticità delle figure, ma c'è nel nostro autore un gusto di stemperare la luce che cade dall' alto sulla terra e, soprattutto, l' esibizione di alcune asimmetrie che rivelano una sorta di resistenza ad alcune normative umanistiche.
Fausto Lorenzi
|